III

L’Alfieri e la poesia

Tutto questo mondo di volizioni e di pensieri che vanno facendosi tentativo sistematico solo in un momento finale, ma che vivono soprattutto dello slancio sentimentale che li nobilita, tende nell’Alfieri a tradursi in pratica ma, con la stessa violenza con cui farebbe ciò, si precipita istintivamente verso una rappresentazione di sé, verso una giustificazione della propria inettitudine risolutiva mediante l’espressione poetica.

Lo stesso contrasto con il tiranno, che rappresenta il primo modo e il piú duraturo di evasione e di ribellione contro un mondo di limiti oscuramente intuito, tendeva a crearsi una vita fuori della pura formulazione teorica. Nato dalla passione di un atto di liberazione, quel contrasto viveva nella sua tensione, ne creava quel fervore magnanimo su cui costruiva una superiorità del sentimento sulla ragione. Tendeva a mantenere la sua purezza senza placarla in un idillio, in una utopia particolareggiata, ad alimentare la guerra contro il male senza la quale quella passione sarebbe diventata retorica o avrebbe dovuto indirizzarsi verso mete a lui ignote. Come nella vita alfieriana si deve dire che il tiranno è il primo compagno del suo cuore, l’ineliminabile ragione del suo stato di guerra, sí che diventa giustamente un simbolo di ogni limite che l’autore sente davanti a sé, il tiranno è anche il primo motivo che si concreta in arte. Voglio dire che egli già vive nella mente dell’Alfieri con una certa indipendenza, contrapponendosi, evocando un personaggio, una figura, non un’idea astratta. La tirannide si fa tiranno e il tiranno si svolge secondo una intuizione di personalità. Cosí nasce il personaggio alfieriano. Il contrasto si sviluppa su di uno scenario che è quello vuoto, desolato dell’esperienza piú assoluta del poeta: aria fatta di infinito spaziale; e chiede un dialogo, un atto di liberazione. Cosí nasce la tragedia alfieriana. D’altra parte quel contrasto viveva di una sola passione, e non appena il tiranno si vivificava anch’egli partecipava alla natura tormentata di quel bisogno di lotta, di solitudine ribelle, di atto eroico. Saul e Filippo cozzano anch’essi titanicamente contro una dominazione che li ha sopraffatti, contro un limite alla loro individualità. E quella tragedia ripete un unico grido che non conosce risposta, che non vuole risposta, che svolge un dialogo tutto ingannevole rispetto alla sua solitudine profonda. È la lirica della tragedia, è la lirica di un senso tragico della vita e dell’uomo.

In molti poeti la nascita della poesia è quasi inavvertita, preparata da una lenta educazione piú o meno volontaria, da una cultura adatta, simpatizzante con le loro tendenze. Naturalmente anche in loro da un certo punto daterà lo svegliarsi originale della loro poesia, ma insomma in loro l’educazione ha fatto perdere almeno apparentemente a quella nascita il suo carattere di rottura, di liberazione dall’appartenenza totale al mondo delle esperienze multiple e delle volizioni discordi. Nell’Alfieri, senza secondare le interpretazioni popolari di una specie di miracolo operatosi a tarda età, la nascita alla poesia è invece piú chiara, meno preparata da tentativi culturali, da ammaestramenti di letture lunghe ed organiche, da una precocità nel senso della trasformazione di sensibilità poetica. Tutti i poeti parlano di conversione letteraria, ma l’Alfieri può dare a questa parola un valore piú risoluto e meno letterario. È una conversione alla letteratura e alla poesia insieme. È l’elaborazione nuova di un mondo sentito secondo le categorie del volere, dell’amare e dell’odiare. Il presupposto della sua vita come poeta è dato dalla sua natura passionale, smisurata e tormentata.

Una vita di intensità affettiva precede la vita della poesia e fa di questa il suo sfogo piú vero e coerente. Cosa contraddistingue gli avvenimenti della vita avventurosa del giovane Alfieri da quella di tanti altri nobili assetati di godimento, di sperpero, di distinzione sportiva? La sicurezza che quella piena passionale non si esaurisce e non si soddisfa in ciascuna di quelle avventure, ma anzi si eccita, cresce, cerca una soluzione totale del suo bisogno di felicità intensa e straordinaria. Quel tormento di insoddisfazione era già la garanzia di una vocazione alla poesia, all’arte come all’attività pura che sola poteva, appunto perché non pratica, perché non limitata, adeguarsi a quella richiesta senza misura. In questo senso in pochi poeti la nascita della poesia è avvenuta piú romanticamente, come sfogo necessario di una vita passionale che non poteva esaurirsi nelle misure della pratica. Se tutta la narrazione della Vita fino al 1775 rappresenta la storia della lenta preparazione alla poesia (e piú da vicino descrivono quella incubazione romantica alcune pagine dei Giornali), può interessarci come particolarmente alla poesia l’Alfieri sia venuto avvicinandosi, come la sua cultura lo abbia aiutato e condizionato, come la natura passionale di quella catarsi abbia agito sull’atteggiamento della sua poetica, parallelamente all’atteggiamento della sua soluzione politica. La tesi della parte giovanile della Vita è la risposta al quesito circa i primi segni del suo carattere: «Erano eglino in me questi moti il prodotto d’un animo caldo e sublime, oppure leggiero e vanaglorioso?»[1]. E a quella domanda risponde soprattutto la sicurezza con cui vengono denunciati i primi segni di un animo poetico, di una vocazione poetica. È in primo luogo una specie di omaggio alla bellezza: «io, anche senza secondi fini, sempre sono stato assai propenso per la bellezza, sí degli animali che degli uomini, e d’ogni cosa; a segno che la bellezza per alcun tempo nella mia mente preoccupa il giudizio, e pregiudica spesso al vero»[2].

Ma non ad una bellezza come abbandono all’incanto di un ritmo, quanto come partecipazione alla perfetta vita di un affetto di un mondo sublime, ma non raggelato.

Il primo contatto con la poesia avvenne presto con l’Eneide del Caro, che lesse «con avidità e furore piú d’una volta, appassionando[si] molto per Turno, e Camilla»; mentre del Metastasio prese ad amare i melodrammi, «fuorché al venir dell’arietta interrompitrice dello sviluppo degli affetti, appunto quando mi ci cominciava a internare, io provava un dispiacere vivissimo; e piú noja ancora ne riceveva, che dagli interrompimenti dell’Ariosto»[3]. Dunque «avidità e furore» sono le caratteristiche del suo avvicinarsi alla poesia e questo entusiasmo giovanile resta anche nell’Alfieri maturo, distingue la sua continua e non temporale giovinezza. Rappresentazione di passioni anche blande, addomesticate, ma passioni son quelle che scuotono per la prima volta l’Alfieri. Cosí anche la musica (musica di opera buffa per il Mercato di Malmantile) creava in lui armonia, ma armonia eccitata, armonia dell’animo come in una tempesta superiore ai casi della vita: «Il brio, e la varietà di quella divina musica mi fece una profondissima impressione, lasciandomi per cosí dire un solco di armonia negli orecchi e nella imaginativa, ed agitandomi ogni piú interna fibra, a tal segno che per piú settimane io rimasi immerso in una malinconia straordinaria ma non dispiacevole; dalla quale mi ridondava una totale svogliatezza e nausea per quei miei soliti studj, ma nel tempo stesso un singolarissimo bollore d’idee fantastiche, dietro alle quali avrei potuto far dei versi se avessi saputo farli, ed esprimere dei vivissimi affetti, se non fossi stato ignoto a me stesso ed a chi diceva di educarmi [...]. Ma andandomi poi ricordando dei miei carnovali, e di quelle recite dell’opera seria ch’io aveva sentite, e paragonandone gli effetti a quelli che ancora provo tuttavia, quando divezzatomi dal teatro ci ritorno dopo un certo intervallo, ritrovo sempre non vi essere il piú potente e indomabile agitatore dell’animo, cuore, ed intelletto mio, di quel che lo siano i suoni tutti, e specialmente le voci di contralto e di donna. Nessuna cosa mi desta piú affetti, e piú varj, e terribili. E quasi tutte le mie tragedie sono state ideate da me o nell’atto del sentir musica, o poche ore dopo»[4].

Affetti vari e terribili erano e restavano dunque i risultati della musica, stimolo a poesia come espressione ardente di quegli affetti. Un primo sonetto, «rifrittume di versi o presi interi, o guastati, e riannestati insieme, dal Metastasio, e l’Ariosto, che erano stati i due soli poeti italiani di cui avessi un po’ letto»[5], ha solo valore di una curiosità di adolescente, troppo comune a tutti i ragazzi che studiano per indicarci nulla di notevole.

Ma l’animo veniva educandosi, con quelle «orribili malinconie» di cui tanto spesso l’Alfieri ci parla, ad una predisposizione poetica e ad una poesia vigorosamente personale. La cultura non andava di pari passo con quel precoce sviluppo, e accanto ad opere della storiografia illuministica possono indicarsi per parecchi anni solo dei romanzi francesi, che spiegano semmai un certo piglio tra secco e rapido che ritroviamo nelle pagine francesi dei Giornali o dell’Esquisse du Jugement Universel.

I viaggi iniziati a 17 anni costituiscono una serie di esperienze nuove, una cultura valevole ai fini della condizione poetica per l’apprezzamento degli uomini nelle loro relazioni sociali, soprattutto per la scelta intima di una natura solenne, smisurata, terribile, che allarga il suo animo, convalida il suo senso dell’infinito, prepara il contenuto sentimentale, l’aria della sua poesia, precisa alla poesia il suo compito di una vastità e di una sublimità senza misure arcadiche. L’Alfieri dava alle sue esperienze passionali un’ampiezza poetica e innestava nella poesia un senso di esperienza di vie e di infiniti paesaggi che la qualificavano prima della sua nascita. Cosí per noi, tutti gli accenni alle sue estasi davanti ad una certa natura meno educata, mentre indicano la forza romantica che nell’Alfieri soppianta il vecchio gusto razionalistico del giardino ben ordinato, e addirittura un nuovo senso della natura, ci indicano anche che il suo tormento passionale aveva trovato un suo pascolo che lo allontanava sempre piú dalle soddisfazioni dell’avventura e che lo spingeva a cercare l’assolutezza della poesia. A Marsiglia: «Mi era venuto trovato un luoghetto graziosissimo ad una certa punta di terra posta a man dritta fuori del porto, dove sedendomi su la rena con le spalle addossate a uno scoglio ben altetto che mi toglieva ogni vista della terra da tergo, innanzi ed intorno a me non vedeva altro che mare e cielo; e cosí fra quelle due immensità abbellite anche molto dai raggi del sole che si tuffava nell’onde, io mi passava un’ora di delizie fantasticando; e quivi avrei composte molte poesie, se io avessi saputo scrivere o in rima o in prosa in una lingua qual che si fosse»[6]. E in Svezia: «Continuai il divertimento della slitta con furore, per quelle cupe selvone, e su quei lagoni crostati, fino oltre ai 20 di Aprile; ed allora in soli quattro giorni con una rapidità incredibile seguiva il dimoiare d’ogni qualunque gelo, attesa la lunga permanenza del sole su l’orizzonte, e l’efficacia dei venti marittimi; e allo sparir delle nevi accatastate forse in dieci strati l’una su l’altra, compariva la fresca verdura; spettacolo veramente bizzarro, e che mi sarebbe riuscito poetico se avessi saputo far versi»[7]. «Nella sua selvatica ruvidezza quello è un dei paesi d’Europa che mi siano andati piú a genio, e destate piú idee fantastiche, malinconiche, ed anche grandiose, per un certo vasto indefinibile silenzio che regna in quell’atmosfera, ove ti parrebbe quasi esser fuor del globo»[8]. In Spagna: «Quasi tutta la strada soleva farla a piedi col mio bell’andaluso accanto, che mi accompagnava come un fedelissimo cane, e ce la discorrevamo fra noi due; ed era il mio gran gusto d’essere solo con lui in quei vasti deserti dell’Arragona [...]. Disgrazia mia (ma forse fortuna d’altri) che io in quel tempo non avessi nessunissimo mezzo né possibilità oramai di stendere in versi i miei diversi pensieri ed affetti; ché in quelle solitudini e moto continuato avrei versato un diluvio di rime, infinite essendo le riflessioni malinconiche e morali, come anche le imagini e terribili, e liete, e miste, e pazze, che mi si andavano affacciando alla mente. Ma non possedendo io allora nessuna lingua, e non mi sognando neppure di dovere né poter mai scrivere nessuna cosa né in prosa né in versi, io mi contentava di ruminar fra me stesso, e di piangere alle volte dirottamente senza saper di che, e nello stesso modo di ridere: due cose che, se non sono poi seguitate da scritto nessuno, son tenute per mera pazzia, e lo sono; se partoriscono scritti, si chiamano Poesia, e lo sono»[9].

Dunque quegli spettacoli, quelle conferme prime di una passione che della pratica aveva solo l’urgenza, l’illusione di trovarsi subito realizzata, presto delusa nei casi concreti, erano insieme un invito alla poesia, costituivano quasi una poesia muta, inconscia, viva come momenti dell’animo che tendevano già all’espressione piú che all’azione per quanto esigessero da quella non abbandono placato, ma l’energia fattiva di questa. Il pianto e la melanconia crescevano e la cultura illuministica non bastava a colmare il vuoto della poesia: preparava la trama ideologica alla sua passione antitirannica, ma non il legame che tra quella passione e la poesia doveva nascere direttamente dal suo animo: «Le mie letture [dice nel 1769] erano sempre di libri francesi. Volli leggere l’Eloisa di Rousseau; piú volte mi ci provai; ma benché io fossi di un carattere per natura appassionatissimo, e che mi trovassi allora fortemente innamorato, io trovava in quel libro tanta maniera, tanta ricercatezza, tanta affettazione di sentimento, e sí poco sentire, tanto calor comandato di capo, e sí gran freddezza di cuore, che mai non mi venne fatto di poterne terminare il primo volume. Alcune altre sue opere politiche, come il Contratto sociale, io non le intendeva, e perciò le lasciai. Di Voltaire mi allettavano singolarmente le prose, ma i di lui versi mi tediavano. Onde non lessi mai la sua Enriade, se non se a squarcetti; poco piú la Pucelle, perché l’osceno non mi ha dilettato mai; ed alcune delle di lui tragedie. Montesquieu all’incontro lo lessi di capo in fondo ben due volte, con maraviglia, diletto, e forse anche con un qualche mio utile. L’Esprit di Helvetius mi fece anche una profonda, ma sgradevole impressione»[10]. Qui si potrebbe fare tutta una accurata delimitazione degli interessi alfieriani a quel punto: interesse per le prose voltairiane e di Montesquieu, di cui egli nutrí il suo pensiero politico; impressione sgradevole di fronte ad uno spirito deciso e materialistico; disinteresse alle opere politiche esemplari dell’illuminismo e persino dell’Eloisa, perché il suo amore del «forte sentire» rifiutava un sentimentalismo troppo dolce, fatto per «les âmes sensibles». E questa differenziazione da Rousseau è essenziale per l’Alfieri e per tutto il romanticismo italiano, che ha un carattere piú austero, piú fermo su alcuni valori morali, meno abbandonato al puro valore del languore e dell’intenerimento.

A vent’anni l’Alfieri veniva definendo la sua posizione di fronte alla vita e alla poesia, e se la sua scarsissima cultura si fa sentire o con la troppa presenza o con l’assenza, bisogna però dire che egli aveva già un sicuro istinto di scelta che lo portava oramai ai mondi piú vicini al suo in fermento.

Cosí nella stessa pagina e a contrapposto delle letture moderne viene innalzato Plutarco come il libro ideale, la guida morale che l’Alfieri scoprí alla sua vita e al suo sentimento poetico: «Ma il libro dei libri per me, e che in quell’inverno mi fece veramente trascorrere dell’ore di rapimento e beate, fu Plutarco, le vite dei veri Grandi. Ed alcune di quelle, come Timoleone, Cesare, Bruto, Pelopida, Catone, ed altre, sino a quattro e cinque volte le rilessi con un tale trasporto di grida, di pianti, e di furori pur anche, che chi fosse stato a sentirmi nella camera vicina mi avrebbe certamente tenuto per impazzato. All’udire certi gran tratti di quei sommi uomini, spessissimo io balzava in piedi agitatissimo, e fuori di me, e lagrime di dolore e di rabbia mi scaturivano dal vedermi nato in Piemonte ed in tempi e governi ove niuna alta cosa non si poteva né fare né dire, ed inutilmente appena forse ella si poteva sentire e pensare»[11].

Questo si può considerare l’influsso culturale piú duraturo e simpatizzante con lo spirito alfieriano e viene a confondersi e contrapporsi alla cultura illuministica sí repubblicaneggiante, ma legislativa e progressista, di società, piú che eroica. Questa esaltava le virtú, ma non la virtú unica, eroica e potente che doveva trascinare gli eroi e i vati del romanticismo. Si formava cosí in lui il culto del personaggio unico e grandioso, un gusto del linguaggio non discorsivo, ma esaltato e incisivo, dei gesti piú intatti e tesi, il lirismo dell’individuo solo e contrastante con le avversità. E la poesia veniva a concepirsi essa stessa come bellezza eroica e non come pura bellezza.

Sulla formazione alfieriana incide, sempre nei vent’anni, il colloquio con gli Essais di Montaigne, che alla malinconia portavano l’aiuto di una saggezza virile che mediava senza aria di compromesso l’accettazione dei casi della vita: «ne avea ricavata un’altra malinconia riflessiva e dolcissima»[12], che è un chiaroscuro della malinconia tragica dominante, e dà a certi tratti della sua poesia e del suo epistolario un accento piú riposato e meditativo che è la condizione dell’organicità della sua umanità. Nasce intanto in lui anche la passione per la lingua e per l’arte nel suo significato piú classico: «Lessi, tra’ molti altri [libri italiani], i Dialoghi dell’Aretino, i quali benché mi ripugnassero per le oscenità, mi rapivano pure per l’originalità, varietà, e proprietà dell’espressioni» (1770)[13]. C’era già dunque una autoeducazione di quel sentimento potente e prepotente, ma non zingaresco e incontrollato quanto alla civiltà della forma che alcuni romantici piú faciloni trascureranno in omaggio all’immediatezza. L’amore dei classici che non ha mai abbandonato i nostri romantici nasceva in lui anche per la precisione, la sicurezza, l’organicità della loro lingua (solo cosí ci potremo spiegar bene il suo toscanismo).

Data dal 1771 l’acquisto e la lettura continuata dei principali poeti e prosatori italiani. E data dal 1772 la prima entusiastica esplosione di fronte alla poesia, sia pur seguita da altro ozio e noia che anzi crescono e si fanno tormentosi dopo ogni nuovo segno della poesia al poeta: «Fu in una di quelle dolcissime serate [presso l’abate di Caluso a Lisbona], ch’io provai nel piú intimo della mente e del cuore un impeto veramente Febeo, di rapimento entusiastico per l’arte della poesia; il quale pure non fu che un brevissimo lampo, che immediatamente si tornò a spegnere, e dormí poi sotto cenere ancora degli anni ben molti. Il degnissimo e compiacentissimo Abate mi stava leggendo quella grandiosa ode del Guidi alla Fortuna, poeta, di cui sino a quel giorno io non avea neppur mai udito il nome. Alcune stanze di quella canzone, e specialmente la bellissima di Pompeo, mi trasportarono a un segno indicibile, talché il buon Abate si persuase e mi disse che io era nato per far dei versi, e che avrei potuto, studiando, pervenire a farne degli ottimi»[14]. L’ode, in sé piuttosto mediocre, aveva però alcuni pigli solenni e focosi che commossero quel latente entusiasmo per una altissima declamazione, per il grido di sentimenti sublimi che resta alla base della poesia alfieriana. È nell’anno successivo che, accanto all’amore per una signora torinese (l’«odiosamata signora») in cui sembra collimare l’urto tra la passione ancora grezza e il presentimento della soluzione poetica, l’Alfieri partecipa ad una specie di accademia letteraria e mondana certo assai migliore di quella che egli vuole nella Vita dipingere. E a quel periodo risale la composizione dell’Esquisse du Jugement Universel, che è la prima opera scritta in un gusto voltairiano e romanzesco piú che propriamente satirico e che in sostanza non ci parla che di una certa acutezza e rapidità di scrittura, ma non supera il valore di divertimento di fronte alle esigenze sempre piú tese del poeta. Ed è dell’anno dopo il primo tentativo tragico, il primo sonetto come radicale espressione dei sentimenti di grandezza e di sublimità che fino ad allora non avevano trovato via di uscita. Ecco come descrive la vera nascita della vocazione tragica: «Venne poi dunque quel giorno, in cui, fra quelle mie smanie e solitudine quasi che continua, buttandovi gli occhi su [sull’abbozzo della Cleopatra], ed allora soltanto quasi come un lampo insortami la somiglianza del mio stato di cuore con quello di Antonio, dissi fra me stesso: “Va proseguita quest’impresa; rifarla, se non può star cosí; ma in somma sviluppare in questa tragedia gli affetti che mi divorano [...]”. Appena mi entrò questa idea, ch’io (quasiché vi avessi ritrovata la mia guarigione) cominciai a schiccherar fogli»[15]. La parola «guarigione» non inganna: è una guarigione dall’impossibilità di dar senso ai suoi sentimenti; è la coscienza di uno stato poetico fino allora ricacciato e soffocato in una frammentarietà di azioni e di sfoghi tra i quali prendevano posto anche i tentativi culturali. Ora la poesia diventava la prima e l’unica soluzione: perché in verità anche il «degno amore» per la Stolberg è un po’ sottoposto alla passione per la poesia, tanto piú che fu accettato e consolidato nel suo animo proprio dalla considerazione che, mentre gli altri amori lo avevano distratto, questo lo stimolava sempre piú al lavoro. E la tragedia gli si presentava come la forma naturale per gli affetti che lo divoravano. Egli stesso si presentava in ogni personaggio come già in Antonio, in ogni personaggio che non sarebbe vissuto se non della sua personale passione. Cosí comincia il lavoro dell’Alfieri per dare a questa passione la sua espressione piú perfetta ed eterna. «Eccomi ora dunque, sendo in età di quasi anni venzette, entrando nel duro impegno e col pubblico e con me stesso, di farmi autor tragico. Per sostenere una sí fatta temerità, ecco quali erano per allora i miei capitali. Un animo risoluto, ostinatissimo, ed indomito; un cuore ripieno ridondante di affetti di ogni specie tra’ quali predominavano con bizzarra mistura l’amore e tutte le sue furie, ed una profonda ferocissima rabbia ed abborrimento contra ogni qualsivoglia tirannide. Aggiungevasi poi a questo semplice istinto della natura mia, una debolissima ed incerta ricordanza delle varie tragedie francesi da me viste in teatro molti anni addietro; che debbo dir per il vero, che fin allora lette non ne avea mai nessuna, non che meditata; aggiungevasi una quasi totale ignoranza delle regole dell’arte tragica, e l’imperizia quasi che totale (come può aver osservato il lettore negli addotti squarci) della divina e necessarissima arte del bene scrivere e padroneggiare la mia propria lingua. Il tutto poi si ravviluppava nell’indurita scorza di una presunzione, o per dir meglio, petulanza incredibile, e di un tale impeto di carattere, che non mi lasciava, se non se a stento e di rado e fremendo, conoscere, investigare, ed ascoltare la verità. Capitali, come ben vede il lettore, piú adatti assai per estrarne un cattivo e volgare principe, che non un autor luminoso. Ma pure una tale segreta voce mi si facea udire in fondo del cuore, ammonendomi in suono anche piú energico che nol faceano i miei pochi veri amici: “E’ ti convien di necessità retrocedere, e per cosí dir, rimbambire, studiando ex professo da capo la grammatica, e susseguentemente tutto quel che ci vuole per sapere scrivere correttamente e con arte”. E tanto gridò questa voce, ch’io finalmente mi persuasi, e chinai il capo e le spalle»[16]. Ciò che va sottolineato è che l’Alfieri indicava il positivo nella forza e nell’esuberanza dell’animo come se queste costituissero già insieme all’odio contro la tirannide un mondo compatto da esprimere. Dunque la poesia nasceva con una determinazione: poesia di passione e di libertà; e veniva a legare la sua poetica con una visione sia pure schematica della politica, della lotta contro l’oppressione. E d’altra parte va indicato l’impegno con cui l’Alfieri volle colmare le sue deficienze culturali tanto piú accanitamente quanto piú il suo nucleo centrale era lontano da ogni pedanteria: e in primo piano saliva il problema linguistico, l’aderenza alla forma tradizionale per poi permettere alle sue forze originali di svolgersi senza dubbi, entro una assicurazione contro ogni faciloneria e dilettantismo.

Non ci sono nell’Alfieri tentativi di una teoria artistica, come invece ci sono nel Parini, che resta nel pieno della speculazione sensistica e illuministica: egli ha rotto con quella cultura, ma non ha saputo neppure formulare in termini culturali i princípi di una nuova estetica. Ancora una volta Alfieri apre il romanticismo con intuizioni ed affermazioni, non con ricerche e teorie cui non sapeva e non voleva arrivare. Cosa era per lui la poesia? Dice in un sonetto del 1795:

Bella, oltre l’arti tutte, arte è ben questa,

per cui sfogando l’uom suoi proprj affetti,

gli altrui con dolce fremito ridesta,

mercè gli ardenti armonïosi detti.

Sovr’auree penne in agil volo è presta

sempre a recar fruttiferi diletti

di contrada in contrada; e mai non resta;

che ha i secoli anco a soggiacerle astretti.

O del forte sentir piú forte figlia,

che a’ tuoi fervidi fabri sol dai pace

quel dí, ch’invida Morte atra li artiglia;

poesia, la cui fiamma il cor mi sface,

se al tuo divin furore il mio somiglia,

deh dammi eterea tu vita verace![17]

E prima come prefazione al trattato Del Principe e delle lettere aveva ritrovato l’origine comune di tutte le arti nella libertà, nella forza di liberazione con cui gli artisti, uomini veri, si scagliano contro i limiti imposti dall’oppressione al libero svolgersi dell’individuo, cioè dell’anima, della vita stessa:

Pareami, in sogno, al sacro monte in cima

venir per l’aure a voi sovr’ali snelle

fra il coro delle vergini sorelle,

per cui l’uom tanto il viver suo sublima.

Qui t’abbiam tratto (a me dicea la prima),

non perché invan del tuo volar ti abbelle,

ma perché appien, quanto il saprai, scancelle

un rio volgar parer, che mal ci estima.

Sia malizia, o ignoranza, o sia viltade,

Giove per padre ognun ci dà; ma tace,

che vera madre nostra è Libertade.

Tu vanne, e dillo, espertamente audace,

in suon sí forte, che in piú maschia etade

vaglia a destar chi muto schiavo or giace.[18]

Le idee piú trite e didascaliche sono riprese dalla tradizione del delectando monet («fruttiferi diletti»), ma questo didascalismo ha un senso tutto nuovo perché parla non di nozioni, ma di stimoli spirituali e della radice essenziale dell’uomo, di un entusiasmo privo ancora di determinazione. La poesia è l’inveramento piú assoluto, ma non perciò un serenamento placido del «forte sentire», ché anzi ne è piú forte figlia, cioè a dire, vive di una intensità che è superiore per eternità e per purezza a quella del sentimento nella sua prepoetica. E diventa non la pace del poeta, ma una fiamma come la stessa passione fondamentale di cui è espressione e si deve presentare con «ardenti armonïosi detti»: «armoniosi», cioè formati secondo un certo ritmo, secondo certe leggi artistiche; ma soprattutto anche «ardenti», ricchi di un sentimento in agitazione. Nel secondo sonetto la nascita allotria della poesia è evidente: la poesia nasce dalla libertà, dipende da una condizione, da uno stato morale. Ma anche qui bisogna vedere in questa origine della poesia dalla libertà il piú ampio simbolo di una espressione che nasce da un sincero slancio dell’animo libero da ogni bassezza, da ogni timore, da ogni viltà, da ogni restrizione mentale. Si vede cosí il potente legame tra la passione politica nel suo aspetto piú puro e la poesia, e d’altra parte il passaggio diretto e pieno della passione alfieriana, con il suo accento risoluto di lotta, con la sua urgenza pratica, nella poesia.

Tutto il trattato Del Principe e delle lettere è da una parte il sostegno della politica alfieriana nella sua sostanza morale ed eroica, e dall’altra una lucida e fremente esposizione di un concetto di letterato che si contrappone energicamente al letterato del Settecento, sia a quello dell’Arcadia, sia a quello progressista e illuminato. Il letterato alfieriano anticipa il letterato romantico e lo precisa in un contenuto morale e politico, ma soprattutto morale, dato che il suo panpoliticismo è sano in quanto rappresenta uno sforzo ad affermazioni piú che politiche profondamente morali: nude da qualsiasi intenzione di successo nel campo pratico e pur risolute a nascere con la forza stessa dell’azione.

Il letterato rappresenta non il puro amante dello scrivere (la dolce mania delle lettere), ma l’ideal tipo di uomo vero che si finge incapace alla pratica e perciò rivolto a supplire a quella con la sua arte. Rappresenta naturalmente l’ideale che l’Alfieri proponeva a se stesso, ma anche un concetto valevole universalmente di uomo che sfugge al contingente degli altri uomini mediante il suo atto iniziale di liberazione e la sua pratica di perfezione espressa del suo sentire generoso.

Perciò, come dice l’Alfieri, rappresenta l’antitiranno per eccellenza, il vigore buono contro l’umanità mediocre su cui il principe trionfa. I poeti romantici si nutrivano delle ideologie liberali, ma l’Alfieri costruisce la sua figura libera del letterato sulla intuizione prima di una lotta contro il mondo mediocre, di una liberazione dai limiti di valori prestabiliti e convenzionali. L’individualità non si cela, urta e riconosce sentimentalmente i limiti che la circondano.

Cosí parlano le pagine in cui viene precisata la relazione tra letterato e principe:

«La forza governa il mondo (pur troppo!) e non il sapere: perciò chi lo regge, può e suole essere ignorante. Il principe dunque che protegge le lettere, per mera vanità e per ambizioso lusso le protegge. Si sa, che le imprese mediocri vengono a parer grandi in bocca degli eccellenti scrittori; quindi, chi grande non è per sé stesso, ottimamente fa di cercare chi grande lo renda. Ma, tutti gli uomini buoni si debbono bensí dolere, e non poco, che queste penne mendaci si trovino, ed anche a vil prezzo; e che spesso i piú rari ed alti ingegni si prostituiscano a dar fama ai piú infimi; e che, in somma, tentando d’ingannare i posteri, gli scrittori disonorino la loro arte e sé stessi. Principi, che non proteggete le lettere, a voi indirizzo questo primo mio libro, che specialmente tratta dell’aderenza principesca coi letterati. A dedicarvelo mi trae una vera e piena gratitudine: poiché, non corrompendo voi scrittori di specie nessuna, schiettamente pervenite a mostrarvi tali appunto quai siete, sí alle presenti, che alle future età; se quelle pur mai nominare vi udranno».

«Protezione, onori, incoraggiamenti, mercede; odo per ogni parte gridare dalla ingorda turba, che delle sacre lettere (come d’ogni piú rea cosa) vuol traffico fare e guadagno. Ma, che altro per lo piú da queste grida ridonda, se non la viltà del chiedere e l’obbrobrio delle ripulse? Risponde il principe: Che i letterati son inutili al ben pubblico (il quale da lui vien tutto riposto in sé stesso); che riescono talvolta dannosi e nocivi alla perfetta obbedienza, come indagatori di cose che debbono rimanere nascoste; e che ad ogni modo sono i letterati piú assai da temersi che non da pregiarsi. Io mi propongo di trattare profondamente, per quanto il saprò, queste politiche questioni qui accennate. E da prima, investendomi io, per quanto il potrò, del pensare del principe, anderò investigando in questo primo libro le ragioni che militano in lui a favore e contro alle lettere; e se debba egli quindi proteggerle, o no».

«Ma, prima d’ogni altra cosa, per intendersi, e spiegarsi, mi par necessario il definire esattamente le due parole, che saranno per cosí dire il continuo perno di questo trattato. E, dovendo io definire cosa intender si voglia per principe; dico, che ai tempi nostri la parola PRINCIPE importa: Colui, che può ciò che vuole, e vuole ciò che piú gli piace; né del suo operare rende ragione a persona; né v’è chi dal suo volere il diparta, né chi al suo potere e volere vaglia ad opporsi. Costui, che in mezzo agli uomini sta come starebbe un leone fra un branco di pecore, non ha legami con la società, se non quelli di padrone a schiavo; non ha superiori, né eguali, né parenti, né amici; e, benché abbia egli per inimico l’universale, le forze tuttavia sono tanto dispari stante l’opinione, che si può anche asserire ch’egli non abbia nemici. Costui non si crede di una stessa specie che gli altri uomini; e veramente troppo diverso dee credersi, poiché gli altri tutti, che hanno pure (quanto all’apparenza almeno) e faccia e atti e intendimento umano, soggiacciono a lui ciecamente, e nell’obbedirlo fan fede ad un tempo e della loro inferiorità, e della di lui maggioranza. Costui, per lo piú poco avvezzo a ragionare, e molto meno a pensare, non conosce e non prezza altra distinzione fra gli uomini, che la maggior forza: e non la forza di corpo (che egli per sé non ne ha niuna), ma la forza che sta nella opinione dei molti uomini esecutori venduti delle principesche volontà. Il principe vede soggiacere a lui qualunque merito, qualunque dottrina, qualunque virtú, che in eminente grado distinguano l’un uomo dall’altro: il dotto non meno che l’ignorante, il coraggioso non men che il codardo, il fortissimo non men che il piú debole; tutti egualmente egli vede tremare di lui: quindi, senza sforzo veruno d’ingegno, il principe fra sé stesso conchiude (e ottimamente conchiude) che l’uomo veramente sommo è quel solo, che comanda e atterrisce un maggior numero d’altri uomini. Posato questo principio, giustissimo nel capo di chi regna, verrà dunque il principe a stimare sé stesso sopra ogni cosa, e ad accarezzare, a proteggere infra il suo branco quei soli che piú l’obbediscono, e che piú s’immedesimano nelle di lui opinioni».

«Ma, che sono elle le vere lettere? Difficilissimo è il ben definirle: ma per certo elle sono una cosa contraria affatto alla indole, ingegno, capacità, occupazioni, e desideri del principe: e in fatti nessun principe non fu mai vero letterato, né lo può essere. Or dunque, come può egli ragionevolmente proteggere, e favorire una sí alta cosa, di cui, per non esserne egli capace, difficilissimamente può farsi egli giudice? E se giudice competente non ne può essere, come mai rimuneratore illuminato può farsene? per giudizio d’altri. E di chi? di chi gli sta intorno. E chi gli sta intorno? Se le lettere sono l’arte d’insegnar dilettando, e di commuovere, coltivare, e bene indirizzare gli umani affetti; come mai il toccare ben addentro le vere passioni, lo sviluppare il cuore dell’uomo, l’indurlo al bene, il distornarlo dal male, l’ingrandir le sue idee, il riempirlo di nobile ed utile entusiasmo, l’inspirargli un bollente amore di gloria verace, il fargli conoscere i suoi sacri diritti; e mille e mille altre cose, che tutte pur sono di ragione delle sane e vere lettere; come mai potranno elle un tale effetto operare sotto gli auspicj di un principe? e come le incoraggirà a produrlo, il principe stesso? L’indole predominante nelle opere d’ingegno nate nel principato, dovrà dunque necessariamente essere assai piú la eleganza del dire, che non la sublimità e forza del pensare»[19].

Questo dell’Alfieri è dunque il letterato nuovo che per altra via con piú moderazione e senso del cittadino piú che dell’uomo formava il Parini e che riprenderà il Foscolo in una sintesi che resterà a base del Risorgimento. Ché basti accennare come l’uomo del Risorgimento aveva il suo primo modello nel letterato alfieriano e foscoliano. Il letterato europeo che pure costituiva la solidarità di ogni nuova conquista non è piú sopportato dall’Alfieri, che vola verso il letterato romantico che cerca la sua prima grandezza nella condizione stessa della grandezza: la libertà. La distinzione romantica del genio dalla turba dei mortali si affaccia veemente nel giudizio sui letterati che non hanno una parola nuova e dunque libera da dire: «Gli uomini grandi davvero, in ogni età e contrada rarissimi nascono: ma quei mediocri, che con indefesso studio acquistatasi una certa felicità di stile, son giunti a farsi leggere ed ascoltare, abbondano oggi giorno in ogni paese d’Europa; e sono questi la base della letteratura cortigiana»[20].

Con la presenza segreta del Machiavelli (si pensi quanto dice Machiavelli anche al Leopardi delle Operette), il mito romantico acquista un sapore piú robusto e meno letterario. Uomini e volgo, mondo nuovo e civilizzazione senza sorprese. Il letterato però di per sé non è uomo di azione («o sia, perché la loro vita molle e sedentaria li rende poco atti all’eseguire, o tentare azioni grandi; o sia, perché lo sfogo del comporre indebolisce nella massima parte e minora il loro sdegno»[21]), ma i suoi scritti possono diventare un’arma contro il principe, un’educazione a un modo di vivere incompatibile con ogni sottomissione al potere assoluto. Cosicché al principe gioverebbe «estirpar le lettere affatto, potendo»[22], o avvilirle col proteggerle. «Se un solo principe vi fosse su questo globo; o se nessun altro governo vi fosse, che il principesco; o se qualche isola cosí ben guardata vi fosse, da cui nessun uomo uscire, né alcuno entrar vi potesse; credo che in questi tre casi, il principato potrebbe con suo manifesto vantaggio proscrivere ogni lume di lettere, e ogni qualunque libro, che non insegnasse il servire. Non si può mettere in dubbio, che l’uomo che si trova soggetto, non vuole per natura obbedire, se non il meno ch’ei può; e cosí, quello che si trova sovrano, vuol comandare il piú ch’egli può. Al principato dunque gioverebbe moltissimo la totale cecità e ignoranza dei sudditi tutti: né mi par questa una proposizione che abbisogni di prove. Ma dico di piú: che in un tale stato di cose, la ignoranza perfetta dei sudditi gioverebbe al principe assai piú, che non possono nuocergli nello stato presente i tanti lumi, che a noi pare d’avere. E di quanto asserisco, ne trovo la prova nei fatti. Malgrado questi nostri tanti lumi, malgrado che da molti di noi ben si sappia che ogni autorità illimitata non può avere altra base che la nostra debolezza, e non mai l’altrui forza, poiché nessun uomo ne ha tanta in sé stesso da poter tutti sforzare; ogni giorno pure, e ad ogni capriccio da noi ciecamente si obbedisce tacendo. Al contrario, nei paesi di perfetta ignoranza, l’autorità assoluta vien riputata, o di diritto divino, o privativa di quella tale stirpe, o necessaria e inerente alla natura dell’uomo; e quindi ogni fantasia del dominante viene senza mormorare accettata, come giusta, inviolabile, e sacra legge. Certo è, che per gli animi volgari, piú queta e secura cosa riesce il comandare a chi non dubita punto se obbedire si debba: ma, questo prezioso dubbio, trasmesso alle nazioni moderne europee per via dei libri antichi, non si può da nessun principe con niuna forza estirpare del tutto. Ed in fatti, per quanto siano mai state perseguitate, o si perseguitino le lettere e i letterati, non si potrà però mai annichilare un Tacito; e questo solo è piú che bastante per rilevare agli uomini ogni segreto dell’arte principesca. Mi pare dunque chiarissima cosa, che il tentare d’impedire a mezzo ogni seme di vera letteratura, non sia né prudenza, né ragione, né astuzia, nel moderno principe. Nel mostrare egli di molto temere ciò che l’effetto e l’esperienza debbono avergli insegnato oramai che poco si dee temere da chiunque lo sa deviare, il principe non accresce di nulla la propria sicurezza; ma bensí in molto maggior dose si va egli procacciando in tal guisa e l’odio e il disprezzo di tutti. Maometto secondo, nell’impadronirsi d’Alessandria fece ardere tutti i libri raccolti dai Tolomei, come inutili per chi sapeva obbedire, e dannosissimi per chi nol sapeva. Ma molti secoli innanzi, quegli stessi Tolomei regnando assoluti in Egitto; molti secoli dopo, Lodovico decimoquarto, e assai altri principi, regnando assoluti in Europa, premiarono pure ed onorarono infiniti scrittori. Ora io domando: Que’ Tolomei in Egitto, questi Luigi, o Carli, o Franceschi in Europa, volevan eglino esser meno obbediti, che quel Maometto? nol credo: ma stimavano essi, che alla obbedienza dei sudditi, o niente, o pochissimo nuocessero e gli scrittori, ed i libri. Né i principi nostri, in ciò credere, s’ingannavano punto, visto i moderni tempi ed i costumi europei. Questi nostri costumi, che ogni cosa a mezzo ci danno; che coll’educazione indeboliscono sempre a metà la natura, e colla metà della rimanente natura corrompono e annichilano spesso quanto avrebbe operato la educazione; questi stessi costumi, dai quali non può andare esente il principe, poiché vi è nato egli pure, lo costituiscono un ente, che non si accorda mai con sé stesso. Ed in fatti, egli riunisce contradizioni massime e perenni; egli vorrebbe e non vorrebbe; egli è feroce, ed umano; despota, e privato; e mille altre cose miste, e contrarie tutte fra loro: da cui nondimeno sempre ne risulta l’intero nostro obbedire e tremare; e il non esser noi, per dir vero, né Egiziani né Turchi, ma né tampoco Romani, né Greci».

«I viaggi, il commercio, e l’arte del cambio, hanno emancipato per cosí dire gli abitatori d’Europa: quindi i nostri padroni e pedagoghi politici non ci possono piú tenere come bambini del tutto. In oltre, il rimanervi alcuna picciola parte d’Europa, in cui l’uomo nasce, o libero, o meno oppresso, sforza anche i piú risoluti oppressori ad osservare alcuni indispensabili risguardi coi sudditi. In questo stato di cose, facilmente (pur troppo pe’ principi) si promulgano le opinioni diverse, e si estendono rapidamente in Europa, allorché da eccellenti uomini vengono poste in iscritto. L’amore di novità, l’ozio, la curiosità, e anche il dolce fine di render sé stesso migliore, sono le cagioni per cui da alcuni altri non volgari uomini si legge: e, fra tutti i libri, pare che quelli che scuotono il cuore dell’uomo, siano i piú universalmente letti e gustati. L’autore ottiene questa commozione in molte maniere; ma in nessuna piú efficacemente, che illuminando con colori nobili patetici e forti le imprese grandi in sé stesse, e da cui ne siano ridondati effetti importanti. E suole ciò farsi, o fingendo per via di poesia, o traendo dai fonti della storia, o perorando al popolo, o su le cose umane generalmente filosofando. Toltane dunque la passione d’amore, che sotto ogni governo può allignare, e piú sotto i meno virtuosi, se l’autore vorrà maneggiarne alcuna dell’altre allegandone splendidi esempi, bisognerà pur sempre ch’egli ricorra ai popoli liberi. Quindi è, che ai giovinetti ampiamente si insegnano le cose di Roma, di Atene, e di Sparta, ma raramente o non mai si favella a loro di Persia, d’Assiria, d’Egitto, e dei loro tiranni. Volendo sotto qualunque velo insegnar la virtú, è dunque sforzato lo scrittore a cercarla dove ella è stata; ad indagarne, o accennarne le cagioni; a narrarne gli effetti; e ad incoraggire in somma i lettori alla imitazione di essa. Perciò non mi pare, che abbisogni di prove l’asserire; che libro di sane lettere non vi può essere, il quale (per qualunque mezzo vi arrivi) non abbia però sempre per fine principalissimo ed unico, l’insegnar la virtú. E intendo qui per virtú; Quella nobile ed utile arte, per cui l’uomo, col maggior vantaggio degli altri, procaccia ad un tempo la maggior gloria sua. Ammessa questa definizione, che mi pare innegabile, ogni buon libro (che non sia però di scienze esatte, delle quali parlerò in appresso) dee necessariamente in quasi tutti i suoi principj offendere l’autorità illimitata; poiché, per quanto voglia anche lo scrittore essere discreto, e serbare riguardi, non può pure mai laudare il vizio; né, molto meno, può insegnare la vera virtú, senza dimostrare o accennare, che il fonte di essa non può essere e non è stato mai, né l’obbedire al capriccio di un solo, né il servire, né il tremare. Ciò posto, io dunque dico; che nessuna vera sublime epica poesia, nessuna tragedia, né commedia, né storia, né satira, né opera filosofica, né arte oratoria, né in somma alcun ramo di belle lettere (tolto il madrigale, il sonetto puramente amoroso, e la pastorale) potrà mai riempire nel principato il suo proprio dovuto scopo, e dare nel vero, senza offendere o piú o meno l’autorità assoluta. E, se non volessi esser breve, e massimamente in questo primo libro, potrei ampiamente provare quanto asserisco. Ma, per mille ragioni mi vaglia una sola; e siano i fatti. Domando: Qual è il buon libro (veramente stimato tale), che sviluppando altre passioni umane che l’amore, o tutto o in parte, da qualche principe, o in qualche tempo, non sia stato proibito, o screditato, o schernito, o calunniato, o perseguitato? Ma, che pro? i libri sussistono, e durano contra ogni ira, potente o impotente sia ella, purch’essi sian ottimi. Non potendo adunque il moderno principe europeo assolutamente impedire che i libri buoni già fatti continuino ad esistere, e ad esser letti; né che alcuni altri buoni, ma sempre pochi, se ne vadano scrivendo; accortamente farà egli, se saprà non mostrarsi interamente contrario alle lettere, e se saprà premiarne a tempo gli artifici; anteponendo però sempre i mediocri ai sommi; e astutamente cercando di fare che i sommi rimangano o pajano mediocri, coll’impedir loro cortesemente di pensare, e di scrivere, fin dove bisognerebbe. Per la stessa ragione egli farà benissimo di fingere di onorare gli scrittori morti, col ristamparli; ancorché tali siano, che se avessero scritto a tempo suo sotto lui, gli avrebbe egli, potendo, piuttosto soffocati, che non mai dati in luce. In tal guisa perverrà forse il principe a persuadere ai piú, che egli non teme l’effetto di una certa libertà di scrivere e di pensare. E quella stessa apparente sua non curanza sarà anche uno scoraggiamento grandissimo a chi sperasse di farsi un nome liberamente pensando e scrivendo; perché una certa persecuzione contro ai libri fortemente e luminosamente veraci, costituisce per lo piú la base della loro prima fama; e quindi maggiormente e piú presto propagandandogli, assai piú utili in minor tempo li può rendere»[23].

Come deve dunque comportarsi il letterato? Deve disprezzare ogni successo pratico, ogni utilizzazione interessata del suo lavoro, ogni legame che impedisca la sua missione di apostolo della verità e della bellezza. «In somma, io non posso nel cuore di un vero scrittore dar adito ad altro timore, che a quello di non far bene abbastanza; né ad altro sperare, che a quello di riuscire utile altrui, e glorioso a sé stesso. Ammettendo un tale principio, si esamini se il sublime scrittore nel principato potrà mai essere un ente vissuto fra i chiostri; un segretario di cardinale; un membro accademico; un signor di corte; un abate aspirante a beneficj; un padre, o figlio, o marito; un legista; un lettore di università; un estensore di fogli periodici vendibili; un militare; un finanziere; un cavalier servente: o qualunque altr’uomo in somma, che per le sue serve circostanze sia costretto a temere altro che la vergogna del male scrivere, o a desiderare altro che il pregio e la fama della eccellenza»[24]. Mai si era arrivati ad una tale eroica intransigenza nella definizione di letterato, mai si era fatta una distinzione cosí netta, non oraziana, tra l’amore per le lettere ed ogni altro amore umano che possa comunque temperare il primo. Anche qui l’Alfieri portava con una evidenza ancor piú chiara la sua esigenza di uomo intero, di soluzione non compromessa. Perciò egli giungeva al paradosso di escludere dalle lettere ogni uomo non indipendente pecuniariamente, perché «né arte oratoria, né storia, né filosofia vera non possono mai scaturire da un animo servo, né penetrare gli orecchi e il cuore di popoli servi: e, molto meno la poesia, maneggiata da servi artefici, può altamente trattare alte cose, senza contaminarle coll’errore, col timore, e colla servile adulazione»[25].

La poesia è dunque per l’Alfieri la voce della verità, di una verità generosa e sentita, in cui un estremismo romantico si fonde con un residuo di didascalismo tradizionale. Ma certo quanto vi è di logicamente vecchio è sempre rinnovato dalla nuova posizione sentimentale e l’accento ideale batte piú su alcune che altre parole delle formule tradizionali. Cosí, nell’affermazione che «le lettere sono l’arte d’insegnar dilettando, e di commuovere, coltivare, e bene indirizzare gli umani affetti»[26], è la parola «commuovere» che piú spicca, e quell’insegnamento delle lettere è non puro didascalismo, ma stimolo all’animo generoso, una forza che cerca una forza da eccitare e rendere attiva secondo le sue capacità. Sotto le parole vecchie vive una intenzione nuova, che si manifesta a volte nella giustificazione di una massima nella sfera politica che dà cosí ad essa il sapore energico, impulsivo, nuovo. Quando l’Alfieri ha detto che «libro di sane lettere non vi può essere, il quale (per qualunque mezzo vi arrivi) non abbia però sempre per fine principalissimo ed unico, l’insegnar la virtú», e intende per virtú «Quella nobile ed utile arte, per cui l’uomo, col maggior vantaggio degli altri, procaccia ad un tempo la maggior gloria sua»[27], a togliere a queste parole il loro sapore settecentesco, a dare a quella virtú una forza piú machiavellica ed alfieriana contribuisce subito l’applicazione agli effetti del libro, che non può «insegnare la vera virtú, senza dimostrare o accennare, che il fonte di essa non può essere e non è stato mai, né l’obbedire al capriccio di un solo, né il servire, né il tremare»[28].

Quella virtú è virtú di liberazione e di eroismo e l’energia risoluta da cui si fa nascere risolveva la sua luce violenta che in certo senso per l’Alfieri non è tanto l’insegnamento della virtú, quando la virtú stessa liricizzata, fatta persona. Anche il ricondurre il motivo dello scrivere a «quel naturale, innato desiderio di distingersi» è segno, nella sua apparente brutalità, di una concezione energica, appassionata della poesia che diventa per lui lo sfogo di un’anima generosa. «Lo scrivere, è una necessità di bisogno in molti; e questi per lo piú non possono essere veramente scrittori, né io li reputo tali: lo scrivere, è una necessità di sfogo in alcuni; e questa, ben diretta, modificata, e affatto scevra di ogni altro bisogno, può spingere l’uomo ad essere quasi che un Dio»[29].

Necessità di sfogo. Sfogo di che? Di quella passione precedente ad ogni cultura che egli chiama «impulso naturale» e che costituisce una delle piú solide basi di ogni estetica e poetica romantica, rimanendo l’intuizione piú profonda che l’Alfieri ha avuto della propria natura. «E questo impulso, un bollore di cuore e di mente, per cui non si trova mai pace, né loco; una sete insaziabile di ben fare e di gloria; un reputar sempre nulla il già fatto, e tutto il da farsi, senza però mai dal proposto rimuoversi; una infiammata e risoluta voglia e necessità, o di esser primo fra gli ottimi, o di non essere nulla»[30].

Questo «impulso» ci assicura il legame tra poetica e politica, in quanto questa è la condizione di quella («La libertà lo coltiva, lo ingrandisce, e moltiplica; il servaggio e il timor lo fan muto»[31]), e il legame tra poetica ed ogni altra attività profondamente umana. L’unità delle attività umane è trovata in questa passione prima, che determina con la sua presenza il campo della vera umanità. La natura energica della Poetica alfieriana si consolida in questo principio di sine qua non di passione, di bollore inesauribile. Le pagine che l’Alfieri dedica all’«impulso» ci chiariscono tutto ciò che abbiamo accennato e ce lo rendono vivo con una partecipazione non critica ma poetica («E cosí ogni grande, che è nato per fare, alla semplice vista di chi fatto ha, rabbrividire si sente»[32]), e ci tracciano il ritratto intimo dell’Alfieri nel suo attacco violento alla poesia come all’arma della sua lotta vitale: «Annoverate ho finora tutte le diverse classi di uomini sommi, che siano da noi conosciute: letterati, scienziati, politici, legislatori, artisti, capitani, capi-setta, santi; e per anche v’ho incluso i principi stessi; per quanto mai possa esser grande questa specie, che tanti grandi uomini d’ogni sopraccennato genere impedisce e distrugge. Ma, di quanti ne ho annoverati, di tutti dico, che sommi veramente non furono mai, né sono, né saranno, né potranno mai essere in nessuna delle nomate classi coloro, che a divenir sommi non avranno avuto per prima base l’impulso naturale. È questo impulso, un bollore di cuore e di mente, per cui non si trova mai pace, né loco; una sete insaziabile di ben fare e di gloria; un reputar sempre nulla il già fatto, e tutto il da farsi, senza però mai dal proposto rimuoversi; una infiammata e risoluta voglia e necessità, o di esser primo fra gli ottimi, o di non essere nulla. Piú laudevole e maggiore debb’essere questo impulso, in proposizione della grandezza del fine che egli si propone, e della grandezza dei mezzi che adopera per conseguirlo. Ma da questo immoderato amore di giovare a sé stesso con la gloria, non dee né può mai andarne disgiunto l’amore dell’utile altrui. Da questo utile, ampiamente provato coi fatti, si aspetta poi in premio quella testimonianza della propria superiorità, che spontaneamente uscendo dalle bocche degli uomini liberi, sola costituisce la vera fama e la gloria di chi n’è l’oggetto. Ardirei pure aggiungere, che i semi per cosí dire di una tale testimonianza già stanno nel cuore e nell’intelletto del grande, che veramente n’è degno; ma, che il solo pubblico grido li feconda poscia e sviluppa. Questo divino impulso è una massima cosa, senza la quale nessun uomo può farsi sommo davvero. Ma non perciò tutti quelli che l’hanno (e son sempre pochissimi) riescono a farsi sommi davvero: che pur troppo questo divino impulso può essere dai tempi, dall’avversa fortuna, e da mille altre ragioni, indebolito, deviato, trasfigurato, ed anche spento del tutto. Quest’impulso è una sovrana cosa, cui niuna potenza può dare, ma ogni potenza bensí lo può togliere. La libertà lo coltiva, lo ingrandisce, e moltiplica; il servaggio e il timor lo fan muto. Quindi tanti uomini grandi sviluppansi nelle vere repubbliche, cosí pochi e di tanto minori, nei principati; ancorché dei capaci di farsi tali ve ne nascano pure. Quindi i grandi in repubblica son sempre grandi di piú utile e vera grandezza, che i grandi nel principato: quindi gli uomini, quasi eguali e simili per loro natura in ogni contrada, riescono cosí diversi da nazione a nazione, e da tempo a tempo fra le nazioni stessissime: quindi, in somma, si vedono fra i popoli tenuti già barbari sorgere le stesse virtú e grandi opere, di cui piú non si vede né l’ombra pure fra i popoli, che già colti e liberi, rimbarbariti ora dalla servitú se ne giacciono. Lo stesso impulso naturale che creava uno Scevola in Roma nascente, creava un Decio in Roma perfetta, un Gracco in Roma già guasta, un Mario in Roma morente, un Giulio Cesare in Roma già spenta; e forse anche un Sisto quinto in Roma ecclesiastica. Ora, chi potrà dubitare, che (mutati costoro di tempi) Cesare, con quella stessa smisurata ambizione che lo sforzava a farsi da piú degli altri, nato nei tempi della prima libertà, non potendo primeggiare in potenza, non avrebbe, come Scevola, voluto soverchiar gli altri tutti in virtú? e che Scevola, nato ai tempi di Cesare, vedendo la virtú inutile e vinta, non avrebbe come egli cercato la maggioranza e la fama nella sola usurpata potenza? Ma, parlando io qui delle lettere piú che di ogni altro genere di umana grandezza, mi conviene dimostrare quale e quanta influenza abbia sovr’esse questo naturale impulso negli scrittori. Ed è questo un raro e prezioso privilegio delle lettere sovra tutti gli altri rami dell’umana grandezza, che chi ha veramente questo impulso, e, avvedendosene in tempo, sottrar lo sa dalle ingiurie e danni che arrecare gli possono sí l’altrui autorità e protezione, come il proprio ozio, bisogno, e timore; quegli può fare ogni piú eccellente e somma cosa che da sé stesso. Questa divina arte dello scrivere, ella è pure innegabilmente per sé medesima la piú indipendente di tutte, come già ho dimostrato nel libro secondo; e la piú innocente ad un tempo, poiché a nessuno può recar danno, se non al vizio; e la piú utile in somma, poiché a tutti può, e dee voler sommamente giovare. Quindi è, che al fare, per esempio, la grandezza di Giunio Bruto, erano necessarj i Tarquinj tiranni, Lucrezia stuprata, Collatino giustamente disperato, il furore dei cittadini, il molto sangue sparso e nel foro e nel campo, e la uccisione infine dei proprj figliuoli di Bruto; cose tutte lamentevoli, e lungamente riuscite dannose, prima che l’utile ed il bene ne ridondasse; ma, al fare la grandezza di Omero, null’altro era necessario che Omero stesso, e il naturale suo impulso. Il primo obbligo dunque di chi si destina scrittore, egli è d’imparare a conoscere in sé stesso questo sublime impulso, e, conosciuto, a dirigerlo, Appurando cosí i proprj suoi mezzi, ove egli senta vivamente in sé stesso la evidente certezza di un tale impulso, fermamente dee credere che egli tutto farà da sé stesso; e che ogni protezione potrà nuocergli, e nessuna giovargli. Ma, come mai potrà il candidato scrittore conoscere se egli abbia, o no, questo impulso? dai seguenti sintomi. Se egli, nel leggere i piú sublimi squarci dei piú sublimi scrittori, altro non sente nascere in sé che commozione e diletto, egli è come i molti che stupidi non sono: se vi si aggiunge la maraviglia, egli può giustamente riputarsi qualche cosa piú; ma però ancora minore dello scrittore ch’egli ha fra le mani, e delle descritte cose; e quindi egli è nato soltanto per leggere, e pensare da sé: ma, se egli, in vece della semplice maraviglia, si sente a quella lettura accendere nel cuore come da improvvisa saetta un certo sdegno generoso e magnanimo che in nulla sia figlio d’invidia, e che pure denoti assai piú che emulazione; costui chiuda il libro, si faccia libero se tale ei non è, che egli ben merita d’esserlo; e scriva costui, e non imiti, ch’ei sarà grande e imitato. Questa nobile ira non può nascere, se non da un tacito e vivissimo sentimento delle proprie forze, che a quel tratto di sublime si sviluppa e sprigiona dalle piú intime falde dell’animo: ella è questa la superba e divina febre dell’ingegno e del cuore, dalla quale sola può nascere il vero bello ed il grande. È questa quell’ira, che in ogni midollo d’Alessandro scorrea, nel solo udir profferire il nome di Achille: è questa quell’ira che bolliva in petto di Cesare all’udir di Alessandro; in quel di Temistocle, nel vedere i trofei di Milziade; in quello di Cicerone, nel legger Demostene. E cosí ogni grande, che è nato per fare, alla semplice vista di chi fatto ha, rabbrividire si sente. Ad uomo di cosí alto animo non v’ha protezione al mondo, che nuocere non gli debba; perché non gli può venir mai se non da un uomo assai minore di lui: nessun favore gli è necessario; perché nessuno può accenderlo mai quanto il suo proprio impulso naturale: pochissimi ostacoli impedire lo possono, ove egli abbia superato i primi; perché chi lo spinge è sempre piú forte di chi lo ritrae. Ai pochi simili potrà forse piacere e giovare questo libercoletto, quale ch’ei sia; imparandovi essi a conoscere, sentire, e apprezzare sé stessi, ed altrui»[33].

C’è una visione magnanima della vita che supera le barriere ideologiche e cerca grandezza dove è grande passione, dove è grande personalità. Donde le pagine romanticissime sui capi-setta religiosi e i santi e i martiri: «Havvi un’altra specie di uomini sommi, che virtú e verità insegnando, al pubblico talvolta giovarono, e a sé stessi acquistarono quasi sempre gran fama. Son questi i fondatori delle sette diverse, i santi ed i martiri, cosí cristiani che giudei, o di altre religioni. Costoro, o scritto abbiano, od operato, come dottissimi nella scienza dell’uomo, io li ripongo pur sempre a ogni modo nella classe dei sublimi scrittori. I nostri massimamente, come a noi piú noti, non pochi né deboli argomenti mi prestano per sostenere questo mio già tante volte ripetuto assunto; Che alla verità e virtú, sotto qualunque aspetto elle s’insegnino, moltissimo pur sempre nuoce il principato. Né di costoro parlerò io piú a lungo che non si aspetti a questo mio tema; perché troppe cose mi si appresenterebbero da dirsi su ciò, se deviar mi volessi. Osserverò dunque, che a Mosè (il piú antico tra questi, a noi noto) convenne pure scuotere il giogo del tiranno d’Egitto prima di poter egli dar leggi sí religiose che civili al suo popolo. Ed anzi, chi non vede, che egli, per dar corpo, libertà, ed esistenza a quel popolo errante e avvilito dal lungo servaggio, del sublime velo di una inspirata religione felicemente si valea? E all’operare e scrivere tai cose, non lo avrebbe certamente mai protetto quel Faraone. Cosí Gesú Cristo, politicamente considerato come uomo, volle pur anco, insegnando la verità e la virtú con l’esempio, restituire al suo popolo ed a molti altri ad un tempo, per via di una miglior religione, una esistenza politica indipendente dai Romani, che servi e avviliti li teneano. Cosí Maometto, coll’abbattere la idolatria, volle, sotto il velo di una piú semplice e pura religione, dar consistenza di nazione a popoli barbari che non l’aveano; al che, oltre ad ogni credere, riusciva Maometto. Come legislatori, si debbono dunque costoro annoverare infra i sublimi scrittori, poiché eran mossi dallo stesso impulso, di giovare altrui acquistando gloria a se stessi. E tali erano certamente, nella Cina Confucio, e nell’Indie Zoroastro; e fra altre nazioni molti altri, di cui non sappiamo. I nostri santi poi, o scrittori fossero, come Paolo, Agostino, Grisostomo, Girolamo, ed altri; o colla parola, e piú coll’esempio, predicassero essi virtú, come Francesco, Domenico, Bernando, &c.; o, col loro eroico morire, nei cuori degli uomini in note di fiamma e di sangue lasciassero essi scolpita la memoria del loro sublime imperturbabile animo, e l’ardentissimo desiderio d’imitare la loro virtú, come Lorenzo, Stefano, Bartolommeo, e tante altre centinaja di martiri; costoro tutti, avendo avuto al loro operare lo stessissimo sovrano irresistibile impulso, che debbono avere i veri letterati, alle stesse vicende di essi, per vie e cagioni diverse, soggiacquero. E mi spiego. Costoro, finché furono lasciati fare da sé, puri, incalzanti, e severi mostraronsi; perseguitati, divennero piú luminosi, piú forti, e maggiori direi di sé stessi; protetti finalmente, accolti, vezzeggiati, arricchiti, e saliti in potere, si intiepidirono nel ben fare, divennero meno amatori del vero, e per anche sotto il sacrosanto velo di una religione omai da essi scambiata e tradita, asservitori vili si fecero di politiche e morali falsità. Una moderna non curanza di ogni qualunque religione, frutto anch’essa (come ogni altra rea cosa) del principato, fa sí che i nostri santi non vengano considerati e venerati da noi come uomini sommi e sublimi, mentre pure eran tali. Ciò nasce, per quanto a me pare, da una certa semi-filosofia, universalmente seminata in questo secolo da alcuni scrittori leggiadri, o anche eccellenti, quanto allo stile; ma superficiali, o non veri, quanto alle cose. I libri di costoro, andando per le mani di tutti, stante la loro seducente facilità, imprestano una certa forza d’ingegno a chi non ne avea per se stesso nessuna; a chi poca ne avea, un’altra poca ne accrescono; ma a chi moltissima ne avea da natura, se altri libri non avesse letti che quelli, riuscirebbero forse a deviargliela affatto dalla vera strada. Da questa semi-filosofia proviene, che non si sfondano le cose, e non si studia, né si conosce appieno mai l’uomo. Da essa proviene quella corta veduta, per cui non si ravvisa nei santi il grand’uomo e nei grandi uomini il santo. Per essa non si scorgono manifestamente negli Scevoli e nei Regoli i martiri della gloria e della libertà; come nei bollenti e sublimi Franceschi, Stefani, Ignazj, e simili, non si ravvisano le anime stesse di quei Fabrizj, Scevoli, e Regoli, modificate soltanto dai tempi diversi. E tutto ciò, perché si rimirano i nostri con occhi offuscati da un pregiudizio contrario ai passati; e perché si giudicano dagli effetti che hanno prodotto, non dall’impulso che li movea, e dalla inaudita sublime tempera d’animo, di cui doveano essere dotati, abbenché con minor utile politico per l’universale degli uomini l’adoprassero. Ma in questi tempi, dai presenti scrittori (i quali mai non lodano, né destano alcun entusiasmo, perché non ne hanno nessuno) vengono freddamente accennati con lodi poco sentite quei veri antichi santi di libertà; e interamente vengono derisi questi santi di religione. I moderni scrittori, in vece d’innalzare e insegnare la sublimità pigliandola per tutto dove la trovano, col loro debole sentirla, e col piú debolmente lodarla, affatto la deprimono ed obbliar ce la fanno. Ma, poiché i piú leggiadri fra essi (fattisi interamente padroni di un’arme tanto possente quanto è la ingegnosa derisione) hanno pure scelto di migliorare e illuminar l’uomo col farlo ridere; minoramento grandissimo, a parer mio, hanno recato alla loro propria fama, per non aver essi rivolto quell’acuta leggiadria del loro stile massimamente contro ai principi, i quali assai piú male ci han fatto e ci fanno tuttavia, che non i santi ed i preti. Il credere in Dio, in somma, non nocque a nessun popolo mai; giovò anzi a molti; agli individui di robusto animo non toglie nulla; ai deboli è sollievo ed appoggio. Ma il credere nel principe, ha sempre tolto, e torrà, ai popoli ogni vera virtú, la felicità, la fama, le ricchezze, ed i lumi; agli individui ha tolto sempre, e torrà, il vero amore di gloria, la sublimità, la virtú, e l’ardire. Ed in prova di quanto io dico, la stessa religione cristiana, ancorché acerba nemica della gloria mondana, si vede pure essere ella stata, se non incitatrice di libertà, compatibile almeno con essa, e con la felicità, ed anche con una certa grandezza dei popoli, in tutte quelle regioni ove ella veniva modificata alquanto, o per dir meglio ritratta verso i semplici suoi antichi principi. Il che vediamo tuttavia fra gli Svizzeri, gli Olandesi, e gl’Inglesi. Ma mi si mostri da qual corte di principe mai (e siano pur anche i Titi, i Marc’Aurelj, i Trajani), o da qual principato mai, veramente costituito tale, ne ridondassero (non dico popoli magnanimi e liberi, che impossibil cosa è) ma molti, o alcuni individui liberi, sublimi, virtuosi ed arditi, i quali con opere o scritti insegnando virtú e verità, procacciassero utile vero a tutti gli uomini, e fama eterna a sé stessi. E siccome le religioni per lo piú soggiacciono ai governi, non i governi alle religioni; e siccome quanto male queste possono aver fatto, all’ombra sempre e per mezzo del principato lo faceano; si viene di necessità a conchiudere, che agli uomini in ogni tempo è stato arrecato assaissimo piú danno dai principi, che non mai da’ sacerdoti: e chiara cosa è, che, migliorato o cangiato il governo, si può facilmente venire a migliorare e cangiare la religione, ad estirparne gli abusi, a adattarla alla libertà felicità e virtú. Ora, perché dunque questi nostri moderni leggiadri acuti scrittori, con vie maggior utile per gli uomini e assai piú gloria e fama per sé stessi, non combattevano con le armi possenti del ben adoprato ridicolo piuttosto il principato che la religione? perché il principe armato era e temevasi; non lo erano piú i preti, e schernivansi. Viltà è questa; viltà inescusabile, che lo scrittore, il libro, e per anco i lettori degrada. Se la penna può pur per sé stessa combattere contra il cannone, e a lungo andare trionfarne, non otterrà ella mai per certo tal palma col far ridere gli uomini; ma ottenerla potrebbe bensí col farli pensare, piangere, fremere, e bollire di vendetta e di gloria. Si potranno per tal via cangiare le loro opinioni: che le felici rivoluzioni, per cui alcuni popoli dalla oppressione risorgeano a libertà, nascevano per lo piú (pur troppo!) dalle parole tinte nel sangue, non mai dalle tinte nel riso. Ma ecco, che io, nol volendo, mi sono pure alquanto allontanato dal mio tema. Non credo però di essermene sí fattamente deviato, che da queste ultime mie parole, senza sforzata transizione, io non possa venire a conchiudere coerentemente il presente capitolo. Dico adunque, che i capi-setta, i profeti (che sommi poeti erano), i santi, ed i martiri, nati per lo piú, come ogni altro insegnatore di sublimità e virtú, acerrimi nemici d’ogni assoluta potestà, sotto essa allignare non poteano senza molto scapitare della loro forza e purità. Aggiungo, che i loro fatti, parole, e focosi insegnamenti, svelavano indubitabilmente un animo innalzato, e insofferente di ogni oppressione, ove pure non volessero farsi oppressori essi stessi. Onde costoro, come uomini senza dubbio ad ogni modo sublimi, meritano, anche dai meno religiosi uomini, ammirazione culto e venerazione»[34].

Pagine queste di un interesse estremo per il Risorgimento vicino e soprattutto per l’idea della poesia che si arricchisce della volontà profetica e religiosa. Il poeta diventa vate, sente nelle sue parole l’urgenza e l’inesorabile della voce religiosa, l’abnegazione del martirio. Ci si allontana dal poeta metastasiano, si presenta il poeta preromantico, l’interpretazione profetica di Dante nel Saggio foscoliano. Siamo nell’età dei Geni. Nel delimitare il campo delle attività umane sostenute dall’impulso naturale si scopre meglio che questa unità primitiva si sposta molto sulla direttiva della poesia, mentre conserva come condizione necessaria di questa la libertà politica. L’intercambiabilità piú vera e possibile è quella tra poesia ed azione di libertà, ed è proprio per questa prerogativa della poesia che essa viene ad assumere un primato di fronte alle altre arti ed una specie di opposizione di fronte alle scienze: «Le scienze dunque, che io cosí definirei; Gli arcani e le leggi della natura dei corpi, investigate e spiegate, per quanto il possa l’intelletto dell’uomo; le scienze dico, mi pajono una provincia di letteratura affatto da sé, e interamente diversa dalle belle lettere, che io per contrapposto definirei: Gli arcani, le leggi, e le passioni del cuore umano, sviluppate, commosse, e alla piú alta utile e vera via indirizzate. Diversissimo è dunque il tema che trattano queste due arti; e quelle avendo ad investigare i corpi sensibili, queste a commuovere le intellettuali passioni; consecrandosi quelle allo scoprimento di palpabili verità, queste al rimettere sempre in luce le verità morali già bastantemente dimostrate dai buoni ed alti esempj, ma sempre pure dalla malizia e reità d’alcuni uomini alterate, nascoste, scambiate col Falso, impedite, perseguitate, o sepolte; nasce da questo diversissimo loro uffizio una diversità non piccola di vicende e di effetti, ancorché i mezzi dell’une e dell’altre ne siano pur sempre lo ingegno e la penna»[35]. Ciò significa anche che l’impulso naturale non è proprio la forza vitale che anima ogni opera, ma una sorta di energia poetico-etica piú delimitata. Tanto che nel delineare il primato della poesia sulle altre arti (pittura, scultura, architettura e musica) afferma: «Si lascino dunque proteggere dai principi queste quattro arti»[36]. Ma l’impulso naturale teme la protezione: dunque evidentemente esso è prerogativa della poesia e dell’azione di libertà, di lotta per la liberazione dai limiti e dall’oppressione. Lo scrittore è un eroe che non può operare, dati i tempi tirannici; l’eroe è uno scrittore che opera. La poesia è dunque una liberazione in certo senso meno efficace di quella politica piú vistosa e urgente, in certo senso piú efficace perché eterna e fondamentale. Il romanticismo leopardiano dirà senz’altro piú, l’Alfieri è ancora incline a dir meno in quanto è ossessionato dalla forza che opprime il mondo e che riduce la possibilità di vita all’impulso naturale. Ma se vogliamo insomma riassumere l’atteggiamento dell’Alfieri di fronte alla poesia, non dobbiamo lasciarci prendere dal valore logico di certe frasi e definirlo “panpoliticismo”, dipendenza della poesia dalla politica; né d’altronde ridurre la sua passione politica ad un puro pretesto della poesia: dobbiamo dire che la poesia è per l’Alfieri la vita della passione smisurata e che questa passione per la sua natura di contrasto con le cose, con gli ostacoli, con il mondo del limite, si sente sinceramente e non casualmente limitata da ogni forma di tirannia, cerca in questa lotta la sua prima concretezza e la sua prima nobiltà (romani, Plutarco), si veste della sua urgenza e della sua immediatezza.

Questo bisogno tutto inattuato dell’azione, del gesto risolutivo a questa idea della poesia, se teoricamente può dare un limite di eteronomia, di utilitarismo, ecc. (limite che le varie estetiche romantiche rompono solo con intuizioni e logoramenti dei vecchi termini estetici), dà alla sua pratica un accento di vigore e di unità spirituale che è inconfondibile e che rimarrà diversamente purificato nella poesia romantica, nella sua volontà religiosa e morale, nel suo carattere di voce della personalità. Quando criticò ingiustamente il teatro francese del Seicento perché «sospirando esclusivamente d’amore, ai Francesi insegnava a né pure piú sospirare d’amore»[37], l’Alfieri accentuava l’unità delle passioni nella passione fondamentale dell’anima che dice no, che si oppone tragicamente alle cose e solo con questo primo atteggiamento dà sublimità a tutte le varie passioni. La personalità appassionata non accetta distinzioni tra vita morale e vita poetica («Una moderna opinione, sfacciata ad un tempo e timida e vile, asserisce che il lettore dee giudicare il libro e non l’uomo. Io dico, e credo, e facile mi sarebbe il provare; che il libro è, e deve essere la quintessenza del suo scrittore»[38]), e non riconosce oblii calligrafici anche altissimi. «E questa parola SÉ STESSO, ch’io tanto ribatto, si dee talmente dall’artefice in tutta la sua immensità immedesimare colla parola VERO, che quando egli dice dopo il maturo esame d’una opera sua, come d’una altrui, NON MI PIACE, equivalga ciò per l’appunto al dire, NON CI È IL VERO»[39]. Questo vero è la verità della personalità che non può tradirlo senza tradirsi, senza tradire la poesia. L’Alfieri vuole che la poesia sia l’espressione della personalità piú intensa, piú vigorosa, meno bisognosa di distendersi, di obliarsi come tale.

Ecco perché l’ingiusto giudizio su Virgilio, accusato di viltà perché cortigiano, ha un valore nuovo, anticlassicista, di esclusione quasi forsennata di ogni deviazione della poesia dalla forza della personalità che non può ignorarsi e dormire come volontà morale e libera. Ma pure in quel giudizio egli parlava di «vile sublimità» a proposito degli «eccellenti e toccantissimi versi per far menzione d’un Marcellotto nipotino d’Augusto»[40]. E altrove dice: «vorrei che Catoni fossero gli scrittori, e vorrei ad un tempo stesso la eleganza, l’armonia, e il terso favellare di colui, che lasciò alla piú remota posterità scritto di sé stesso: Relicta non bene parmula»[41]. Dunque l’Alfieri non arrivava ad un’esaltazione del contenuto sentimentale incurante di ogni caso formale. Ma certo i valori formali non risiedono per l’Alfieri piú intimo nell’eleganza di cui parla come veste del contenuto poetico morale, ma nella forza espressiva di quel contenuto poetico.


1 Vita cit., I, p. 43.

2 Ivi, p. 32.

3 Ivi, p. 37.

4 Ivi, pp. 42-43.

5 Ivi, pp. 43-44.

6 Ivi, p. 81.

7 Ivi, p. 101.

8 Ivi, pp. 102-103.

9 Ivi, p. 127.

10 Ivi, p. 93.

11 Ibid.

12 Ivi, p. 96.

13 Ivi, pp. 99-100.

14 Ivi, pp. 131-132.

15 Ivi, p. 148.

16 Ivi, pp. 177-178.

17 Son. 281; Rime cit., p. 229.

18 Del Principe e delle lettere, Prefazione; in Scritti politici e morali, I cit., p. 115.

19 Libro I, «Ai principi» e capp. I-III; ivi, pp. 117-121.

20 Ivi, p. 123.

21 Ivi, p. 126.

22 Cfr. il titolo del cap. IX del Libro I.

23 Libro I, capp. IX-X; ivi, pp. 128-133.

24 Ivi, p. 140.

25 Ivi, pp. 144-145.

26 Ivi, p. 120.

27 Ivi, p. 131.

28 Ivi, p. 132.

29 Ivi, p. 138.

30 Ivi, p. 225.

31 Ibid.

32 Ivi, p. 227.

33 Libro III, cap. VI; ivi, pp. 224-228.

34 Libro III, cap. V; ivi, pp. 220-224.

35 Ivi, p. 208.

36 Ivi, p. 159.

37 Ivi, p. 241.

38 Ivi, p. 170.

39 Ivi, p. 166.

40 Ivi, p. 164.

41 Ivi, p. 141.